4 NOVEMBRE 2024 ore 17:00
Aula Magna DiSLL – Complesso Beato Pellegrino
Tra le iniziative di punta previste dal Progetto di Eccellenza del Dipartimento di studi Linguistici e Letterari si annovera il Seminario di Alta Formazione “Contemporary Liminalities”, codiretto dalla prof.ssa Annalisa Oboe e dal prof. Gabriele Bizzarri. Incrociando ricerca, didattica e terza missione e aprendo fisicamente e metaforicamente gli spazi del Disll ad accogliere il dialogo sia con altri Dipartimenti che con la cittadinanza, questo ciclo di incontri con alcuni degli esponenti più illustri del pensiero e della letteratura del nostro presente, si propone di esplorare la contemporaneità estrema come soglia o limine inquieto in cui ciò che resta dei vecchi sistemi di intendere il mondo viene a scontrarsi, in una linea di confine non priva di timori ma anche percorsa dal fremito di una creatività avventurosa, con nuove proposte di articolazione dei saperi, di definizione delle identità e delle relazioni (dal queer al postumano, dalle enviromental humanities al femminismo decoloniale, fino al pensiero-della-fine).
L’invitata del secondo appuntamento sarà la scrittrice Lina Meruane.
Nel 2013, Lina Meruane comincia a pubblicare le prime versioni di un libro instabile e senza genere, mutante, da intendersi come un cantiere aperto, un testo mobile e in evoluzione, in cui le tribolazioni di un popolo in diaspora, senza perdere la dimensione della testimonianza storica e della denuncia politica, divengono metafore universali utili a esprimere lo stato d’emergenza di tutti gli assetti identitari nel contesto della contemporaneità globale. Volverse Palestina è testimonianza di una soggettività doppiamente migrante -quella di una famiglia palestinese radicata da generazioni in Cile, quella di una cilena trapiantata negli Stati Uniti…- che, nella descrizione di un paradossale “ritorno a casa” compiuto dall’autrice in nome di tutti coloro che non hanno mai avuto la possibilità di tornare, diviene segno solidale, dispositivo instabile utile a ripensare l’identità individuale e l’identità collettiva impressa sui volti e nelle lingue, indagando i controsensi culturali di cui i corpi si fanno portatori.
Lina Meruane, cilena, discendente di terza generazione da una famiglia di migranti palestinesi, può essere considerata, a tutti gli effetti, una delle più importanti scrittrici contemporanee in lingua spagnola, come attesta il prestigioso Premio Iberoamericano delle Lettere José Donoso da lei vinto nel 2023. La sua opera consta di cinque romanzi, due raccolte di racconti e svariati libri di no-fiction, a cavallo tra il saggio, l’autobiografia e l’inchiesta giornalistica, ed è ampiamente tradotta a livello internazionale. In Italia, sono usciti, per i tipi de La Nuova Frontiera, i romanzi Sangue nell’occhio e Sistema nervoso, nonché il pamphlet femminista Contro i figli. Del suo valore si accorse, prestissimo, Roberto Bolaño che, a proposito del suo primo lavoro, il libro di racconti Las Infantas (1998), parlò di una potenza letteraria che “sorge dalle martellate della coscienza, oltre che dal dolore e dal senso dell’inafferrabile”.
Dopo essersi laureata in giornalismo a Santiago del Cile, Lina è andata a vivere a New York dove, dopo essersi dottorata in letteratura con una tesi sulla narrativa dell’AIDS che è poi diventata il libro di riferimento per gli studi culturali sulla malattia e sulle comunità sesso-dissidenti, insegna cultura universale e scrittura creativa presso la New York University.
In Viajes virales, si prova a dar conto di come la “scrittura sieropositiva” latinoamericana abbia provato a rispondere all’urgente domanda di significazione che proveniva dall’epidemia, mettendo in relazione –in modo estremamente lucido, oltreché suggestivo– l’imponente nomadismo della malattia con la globalizzazione e le sue ingannevoli metafore di circolazione, leggendo il virus come un artefatto del villaggio globale atto ad occultarne le sottese dinamiche neocoloniali. Questi interessi teorici si riversano in modo coerente nei suoi libri di finzione, liberandosi di ogni rigidità erudita, come dimostrano i tre romanzi che integrano la sua “trilogia involontaria della malattia” (Fruta podrida, 2006, Sangre en el ojo, 2010 e Sistema nervioso, 2018) dove il tema della malattia, socializzato sino ad assurgere al ruolo di vero e proprio grimaldello interpretativo del mondo contemporaneo, si plasma in narrazioni visionarie e provocatorie, intrise di lirismo, gusto per lo scandalo e senso della resistenza. In tutti e tre i romanzi, il centro è occupato dal corpo, trattato, al contempo, come l’oggetto di uno studio minuzioso, e come sorgente costante di stupore, di meraviglia. Si tratta del catalizzatore ideale per una scrittura densa e volubile, metamorfica per necessità, nel tentativo di provare a inseguire il suo oggetto cambiante: il corpo, appunto, con i suoi disordini, eccessi, sbavature, mutazioni e scivolamenti, captato e registrato con sensibilità acutissima e con gusto, al tempo stesso, profondamente umano e deliziosamente morboso in storie intrise di umori autobiografici che, almeno in parte, funzionano come delle allucinate autoterapie discorsive ma che, in realtà, saltano sistematicamente le frontiere di genere e disattendono con puntualità le aspettative di lettura.
Come in Sangue negli occhi, forse il suo romanzo più famoso: una cronaca medica, un’auto-etnografia del diabete congenito di cui l’autrice soffre sin dalla nascita, che scappa a Lina dalle mani, sulla frontiera tra vissuto personale ed immaginazione pura, per trasformarsi all’improvviso in un racconto horror e in una prova di resistenza alle categorie della soggettività e alle dinamiche del mondo-mercato.
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